credit immagine: Bob Thomas / Getty Images – (EN) Andrew Richardson.
La grande bellezza in una calda estate italiana
Uno-due con Giannini, la palla sfiorata con morbidezza, d’esterno, un dribbling e poi un altro, l’ultima finta di corpo è da museo del calcio: il difensore va via senza nemmeno bisogno di un altro tocco, perché l’ultimo servirà a Roberto Baggio per mettere la palla alle spalle del portiere.
Stadi gremiti di rivalsa e televisioni sotto cieli d’Estate. Gli scarpini di pelle nera appena comprati già ai piedi per ripetere l’inimitabile.
È il 1990. La gioia dei miei 11 anni era la gioia di un popolo intero.
Baggio è poesia
Baggio avrebbe indossato molte maglie, mescolato colori e religioni da spalti, costretto da meccanismi di mercato e da mister devoti al proprio credo schematico che, nonostante gli sforzi, non avrebbero ingabbiato la sua fantasia.
Baggio avrebbe indossato molte maglie. Ma mai nessuna gli vestiva bene come quella azzurra.
Baggio è poesia. E lo sarebbe stato ancora.
Nel mondiale americano del 1994, dopo un girone passato solo per la differenza reti, avrebbe preso per mano la Nazionale di Sacchi, ed in mano le sorti del mondiale, a 3 minuti dall’eliminazione. Una palla messa nei soli 30 centimetri possibili, tra il palo e la mano protesa del portiere, e tacchi e punte di fattura meno nobile dei suoi.
Baggio avrebbe segnato ancora alla Nigeria, e poi alla Spagna, e due volte alla Bulgaria, portandoci in finale a Pasadena.
Ma la poesia non è perfetta, sarebbe troppo banale. Baggio sbaglierà il rigore decisivo, forse tradito da qualche vecchio bullone messo a sostegno di quelle ginocchia fragili e martoriate.
La poesia non è perfetta.
Baggio ha messo la palla troppo in alto.
Qualcuno dirà che quello era un passaggio a Dio.
Perché a poche espressioni del genio di taluni è concesso divenire patrimonio del vissuto comune.
Oggi Roberto Baggio ha 56 anni. Noi ex ragazzini innamorati si guarda bulimici le tv a pagamento cercando surrogati di quel talento di cristallo, desti al sogno di ripercorrere le sue gesta.
Quel che resta è incredulo incanto. La leggerezza immanente della corsa, la memoria ingenua di quel tocco senza rumore, che aveva dentro la purezza di tutto ciò che eravamo.