Jugoslavia: cosa sarebbe potuto essere (e cosa è stato)

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Jugoslavia, terra di arte e fuoco. Che cosa sarebbe potuto essere? Quante volte questa domanda ci ha tormentato, tra rimpianti e sogni mai realizzati. Per piccoli dettagli o per grosse mancanze, per una pagliuzza o per una trave, capita di non riuscire a raggiungere i propri obiettivi, quel lieto fine a cui tutti noi sempre aspiriamo. Questa storia mette insieme tutto questo, moltiplicato all’ennesima potenza. Come ogni storia balcanica che valga la pena di essere raccontata.


Sottili equilibri

Slovenia, Croazia, Serbia, Montenegro, Macedonia, Bosnia-Erzegovina. Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti. Un Tito. Così recitava una celebre filastrocca che voleva esaltare la figura unificatrice e accentratrice del maresciallo croato Josip Broz, meglio conosciuto come Tito. E finché visse l’anziano maresciallo, scomparso nel 1980 a 88 anni, i sei stati di cui sopra sono stati uniti sotto la stessa entità sovranazionale, la Repubblica di Jugoslavia, un conglomerato di multi etnicità e multi religiosità con pochi eguali nella storia dell’uomo. Che quella zona di mondo, però, non fosse la più stabile lo si sa da sempre. Per capirci, nella “polveriera”, com’è stata più volte ribattezzata, c’è perfino scoppiata una guerra mondiale, e in passato già i romani avevano problemi a tenere a freno le scorribande delle popolazioni di quel luogo. Ma tant’è, sotto Tito la Jugoslavia è rimasta unita, nonostante tutte le difficoltà. Tuttavia nessuno di noi è eterno, nemmeno chi seppe andare in contrasto con niente popò di meno che Stalin. E così, dopo il 1980, un virus mai veramente sopito e sconfitto, chiamato nazionalismo, iniziò a serpeggiare nella terra balcanica.

Eccellenze dello sport

Non è ancora il momento però di raccontare il drammatico tracollo jugoslavo che lascerà sul campo migliaia di morti. Perché il popolo balcanico, di qualsiasi etnia o nazione, possiede tre grandi qualità: sa condurre gli affari, impara le lingue con estrema facilità ed è forte nello sport. In qualsiasi sport decida di cimentarsi. Calcio, basket, pallanuoto… è soprattutto nelle discipline di squadra che i balcanici si esaltano, riuscendo a competere con nazionali rappresentative di stati ben più grandi e popolosi. L’epopea delle selezioni jugoslave inizia del resto molto in fretta, già dopo la costituzione della Repubblica Socialista titina. Le rappresentative balcaniche cominciano così a collezionare titoli su titoli. È l’esempio del basket, dove la Jugoslavia vince con la propria nazionale 8 europei, 5 mondiali e, addirittura, un oro olimpico, sfornando talenti eccezionali come Peja Stojakovic, giusto per fare un nome, per non parlare di Vlade Divac o dell’indimenticabile, e indimenticato, Drazen Petrovic, scomparso troppo presto. Campioni generazionali che fecero grande la Jugoslavia nella pallacanestro così come lo era, per esempio, nella pallanuoto. In piscina, infatti, i balcanici uniti sono stati capaci di vincere tre ori olimpici, due ori mondiali, due ori europei e due allori in coppa del mondo, lanciando anche in questa disciplina alcuni dei più forti rappresentanti, come Aleksandar Sapic o Ratko Rudic, che da allenatore, tra i tanti successi conquistati, ne ha portato uno anche a noi italiani, con quell’indimenticabile oro del Settebello a Barcellona nel ’92. Ma la rappresentativa jugoslava che per eccellenza ci ha fatto porre sempre quella tormentata domanda, “cosa sarebbe potuto essere se”, è e resterà sempre quella calcistica. Quella del fudbal.

Poesia e bellezza

Umirati u lepoti. Questa frase racchiude benissimo l’essenza del calcio jugoslavo e, più in generale, lo spirito di un posto di mondo così bello eppure così maledetto. Significa “morire nella bellezza”, e parecchie rappresentative balcaniche l’hanno fatto nel corso degli anni. A differenza dei tanti allori vinti nel basket e nella pallanuoto, la nazionale di calcio della Jugoslavia non ha mai vinto niente. Si è sempre fermata a un passo dal sogno. Due volte eliminata alle semifinali dei mondiali, due volte sconfitta in finale all’europeo, e una volta noi italiani ce la ricordiamo bene, nel ’68, con capitan Facchetti ad alzare l’unico alloro continentale della storia degli azzurri. L’unico “trofeo” conquistato dalla Jugoslavia altro non è che quello del primo dei perdenti, la medaglia d’argento, alle Olimpiadi di Londra del ’48. Però che campioni straordinari è riuscita a sfornare la scuola balcanica. Dragan Dzajic, Bernard Vukas, Robert Prosinecki, Dejan Savisevic. Eppure niente, neanche lo straccio di un titolo. Fino all’unico, meraviglioso, grande acuto, arrivato quando tutto stava per finire. Un successo di club che rappresenta in realtà il trionfo definitivo di una cultura. La Coppa dei Campioni vinta dalla Stella Rossa di Belgrado nel 1991. Su questa e su altre storie è già stato detto tutto e aggiungere qualcosa è veramente complicato. Si può solo dire che quella vittoria fu forse il momento in cui per l’unica volta si poté rispondere a quel quesito che rimbomba sempre in testa: cosa sarebbe potuto essere se… ebbene, quella Stella Rossa è stata.

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La fine

Quella Coppa dei Campioni e la successiva Coppa Intercontinentale alzate al cielo da capitan Stevan Stojanovic, dovevano essere il primo capitolo dell’epopea del calcio balcanico alla conquista dell’Europa, ma altro non furono che il canto del cigno. L’uomo sembra portato di natura a farsi la guerra, ed è forse per questo che lo sport appassiona così tanto, perché altro non è che una metafora del conflitto, una battaglia continua tra noi e loro, dove lo scopo è sconfiggere l’avversario. E proprio perché sport e guerra sono così tanto legati da questo senso di prevalenza e annientamento nei confronti del nemico, è significativo che il primo atto di un conflitto civile fratricida che riporterà il sangue sul suolo europeo per la prima volta dal ’45 e che mieterà migliaia di vittime tra morti e feriti, facendo ripiombare il continente in un buio anti umano fatto di crimini efferati come quello di Srebrenica, abbia il suo palcoscenico in un campo da calcio.

Fratelli contro

È il 13 maggio del 1990, e allo stadio Maksimir di Zagabria dovrebbero affrontarsi in un grande classico del fudbal jugoslavo la Dinamo e la Stella Rossa. Croazia contro Serbia. Sugli spalti si scatena presto il putiferio: gli ultras della Zvezda, i Delije (Eroi) guidati da Zeljko Raznatovic (meglio noto col nome di battaglia Arkan e, successivamente alla fine dei conflitti, riconosciuto responsabile di svariati crimini di guerra) e quelli della Dinamo, i BBB – Bad Blue Boys, iniziano una guerriglia dentro e fuori dallo stadio. La polizia, a maggioranza serba, tollera le intemperanze dei Delije, scatenando l’ira dei BBB e dei giocatori croati in campo. Tra questi spicca un altro figlio illustre del calcio balcanico, quello Zvonimir Boban che ha incantato San Siro con la maglia del Milan, ma che quel giorno verrà ricordato per un calcio rifilato a un poliziotto. Un’istantanea che rimarrà a fuoco nella storia, come il bacio del soldato all’infermiera a Times Square o il ragazzo di fronte al carro armato in Piazza Tienanmen. L’istantanea di uno stato che crolla. Oggi nei pressi del Maksimir di Zagabria c’è una statua a ricordo di quel giorno, con una scritta che recita: “Per i seguaci della squadra, che incominciarono la guerra con la Serbia in questo stadio il 13 di maggio del 1990”. Lo sport non più come metafora di guerra, ma come atto bellico.

I sogni son desideri

Come abbiamo visto, la Jugoslavia unita nel calcio, alla fine dei conti, non ha vinto granché, nonostante la straordinaria bellezza del gioco. Ma quel tarlo che dall’inizio della nostra storia scava nel nostro cervello, quel “cosa sarebbe stato se” che tante volte accompagna la nostra vita nelle situazioni più disparate, resta intatto. Visti anche i recenti successi, anche questi però morti nella bellezza, della Croazia e visti i tantissimi campioni provenienti dai Balcani che popolano l’elite del calcio mondiale, da Dzeko ad Handanovic, da Oblak a Jovic, senza scordare l’ultimo pallone d’oro Modric e tralasciando altre miriadi di nomi che potrebbero popolare queste pagine, viene normale porsi sempre quella domanda. Gli jugoslavi, o come preferirebbero essere chiamati oggi sloveni, croati, serbi, bosniaci, macedoni e montenegrini, hanno una predisposizione naturale per gli sport.

Forti in tutto

Qui ci siamo soffermati su quelli di squadra, ma come non menzionare i successi nel tennis di Novak Djokovic e Ana Ivanovic o nello sci dei fratelli Kostelic e di Tina Maze? Non sapremo mai cosa sarebbe potuto essere. Sapremo sempre, però, che con tutte le sue contraddizioni e difficoltà, quei sei stati con cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni e due alfabeti avranno perpetuamente un’unica forza accentratrice in mezzo alle divisioni: la lepotica, la bellezza. Una bellezza dove non più morire.

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